ARTICOLI

 

Kyoto: i ritardi dell'Italia
(Consumi & società - maggio 2004)

di Stefano Saletti

L'Italia continua a inquinare e ad allontanarsi dagli obiettivi del Protocollo di Kyoto, l'accordo internazionale per la riduzione dei gas nocivi che causano l'effetto serra. E' Altero Matteoli, ministro dell'Ambiente nel primo e nel secondo governo Berlusconi, a dare le cifre della difficile situazione italiana in un'audizione in Commissione Ambiente della Camera.

L'accordo di Kyoto prevede che le emissioni italiane di anidride carbonica dovranno essere ridotte del 6,5 per cento rispetto al 1990 entro il 2008-2012. Cioè dovranno passare da 521 milioni di tonnellate di carbonio a 487, con un gap teorico da colmare pari a 34 milioni di tonnellate. Ma - e qui nascono i problemi - dal '90 le emissioni sono aumentate del 7,1 per cento, portandosi a 546 milioni di tonnellate. Lo sforzo italiano per adeguarsi ai parametri di Kyoto è quindi più che raddoppiato e adesso l'Italia, spiega Matteoli, rischia di sforare con gli obiettivi per circa 60 milioni di tonnellate di gas serra.

"Il nostro paese se la cava male rispetto all'impegno assunto nel protocollo di Kyoto del 1997", spiega sulla rivista on line La voce (www.lavoce.info) Marzio Galeotti, professore ordinario di Economia Politica all'Università degli Studi di Milano. "Mentre infatti dovrà ridurre (tra il 2008 e il 2012) le proprie emissioni del 6,5 per cento rispetto ai livelli del 1990, a oggi le emissioni sono cresciute del 7,1 per cento. Lo sforzo complessivo è così del 13,6 per cento e la storia probabilmente non è finita. Metà dei paesi Ocse - continua Galeotti - ha introdotto tasse sui consumi energetici o su fonti che producono Co2, ma nel caso dell'Italia, il provvedimento introdotto dal ministro Ronchi nel 1999, di fatto non è mai entrato in vigore. Il nostro paese si affida per il futuro soprattutto al mercato dei permessi negoziabili, che nell'Unione europea partirà a gennaio 2005".

Anche dagli ambientalisti arrivano rilievi sulla politica seguita finora. "I dati presentati da Matteoli - ha detto il presidente di Legambiente Roberto Della Seta - sono certamente inquietanti e confermano quello che Legambiente ha già detto nel suo rapporto Ambiente Italia: la crescita in Italia delle emissioni nette sono dell'8,7 per cento rispetto ai livelli del 1990, soprattutto a causa dell'aumento dei consumi per trasporti (+ 23,8 per cento sul 1990) e della stessa produzione energetica (+11,6 per cento). L'Italia dunque deve accelerare le azioni concrete dando il suo contributo".

Il problema è che adeguarsi a Kyoto, quindi limitare l'uso di energia ottenuta da carbone, petrolio e metano, costa. E non a caso più di una voce critica si è levata dalla maggioranza invitando a rivedere l'adesione italiana al Protocollo. Ma questa posizione ci isolerebbe all'interno dell'Ue. E allora, di malavoglia, ci si adegua. Per capire quale comparto produttivo pagherà in maniera più rilevante questa riduzione di emissioni, bisogna leggere il Piano nazionale di assegnazione delle quote di anidride carbonica, punto essenziale del Protocollo di Kyoto e della direttiva europea 2003/87 sull'Emission Trading, cioè sullo scambio di quote di gas inquinanti all'interno dell'Unione europea.

Il documento, presentato il 20 aprile dai ministeri dell'Ambiente e delle Attività produttive, fissa per ogni settore la quantità annua di Co2 che può essere emessa. Sulla base di questo testo, l'Italia deciderà nei prossimi anni come tagliare la produzione di anidride carbonica e degli altri gas accusati di riscaldare il clima. Una decisione che avrà molte ricadute, perché un freno alle emissioni "potrà significare per molti settori o per tante imprese un taglio alla produzione o un rincaro insostenibile", come fa notare Il Sole 24 ore commentando il Piano.

Dalle prime analisi del testo governativo risulta evidente la mano leggera verso le centrali elettriche e in generale sul comparto energetico, da sempre sotto accusa per l'inquinamento. Nel giudizio dei ministeri, hanno chiaramente pesato sia le gravi conseguenze del black out del 23 settembre 2003, sia gli alti costi energetici che strutturalmente si trova ad affrontare il sistema produttivo italiano. Su una previsione di emissioni di anidride carbonica di 285,8 milioni di tonnellate al 2010, infatti, alle attività energetiche è assegnata nel 2005 una quota di emissioni pari a 228,4 milioni di tonnellate di Co2, quasi l'80 per cento del plafond disponibile. Minore la quota per la produzione e trasformazione dei metalli ferrosi (28,9 milioni di tonnellate) e dell'industria dei prodotti minerali (21,9 milioni di tonnellate di Co2).

"L'Italia - ha detto Matteoli - ha messo a punto il suo Piano dopo una vasta consultazione che ha interessato tutti i principali settori. Il documento assegna quote certe che tengono anche conto del fatto che il nostro Paese ha raggiunto anche un'alta efficienza energetica e non utilizza il nucleare. Si tratta di un testo molto equilibrato che può aprire la strada dell'innovazione tecnologica dell'efficienza energetica e della competitività".

Il Piano prevede anche che le imprese italiane potranno utilizzare, per rispettare il proprio "budget", crediti di emissione e di carbonio generati attraverso i meccanismi flessibili previsti dal protocollo di Kyoto. Grazie a questi principi, fissati durante la conferenza di Marrakesh nel 2001, i Paesi industrializzati possono infatti in parte aggirare gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra in casa propria, investendo in azioni di riduzione in altri Paesi.

Sono tre i principali meccanismi a disposizione degli Stati: il Clean Development Mechanism (tra Stati a industrializzazione avanzata e anche con Paesi in via di sviluppo), il Joint Implementation (tra Stati a industrializzazione avanzata e Paesi a uno stadio intermedio come i Paesi dell'est Europa) e, appunto, l'Emission Trading (lo scambio di anidride carbonica all'interno di Paesi a eguale sviluppo). I primi due prevedono la possibilità che uno Stato metta in piedi progetti di riduzione delle emissioni o di "imprigionamento" della Co2. Si tratta dei cosiddetti "sink", (in inglese serbatoi), ossia le riforestazioni in un altro Paese. In questo caso, in cambio, lo Stato promotore otterrà delle "unità di riduzione", titoli che equivalgono ciascuno a una tonnellata di Co2 sottratta all'atmosfera. Le unità così ottenute potranno essere contabilizzate nel registro nazionale attivato da ogni Paese firmatario e contribuire in questo modo al raggiungimento degli obiettivi di riduzione di quel Paese.

In alternativa, e questo è il meccanismo dell'Emission Trading, uno Stato potrà decidere di vendere le proprie unità di riduzione a un altro Stato. Questo commercio potrà però solo avvenire tra Paesi a industrializzazione avanzata e in via di transizione.

La direttiva europea 2003/87 ha messo in moto il processo di Emission Trading e ha previsto che dal primo gennaio 2005 tra le imprese europee venga avviata la compravendita di quote di anidride carbonica, come già sperimentato negli Stati Uniti. Alle industrie verranno assegnati limiti di emissione di gas serra e verrà data loro la possibilità di compensare annualmente le emissioni di gas serra superiori alla quota attribuita, con l'acquisto di quote sul mercato comunitario da operatori che dispongono di eccedenze.

Un meccanismo complesso, quello dell'Emission trading, com'è complessa e travagliata la storia del Protocollo di Kyoto. Varato nel dicembre 1997, non riesce a diventare operativo per l'opposizione degli Usa, ma anche della Russia, dell'Australia. Perché sia vincolante, infatti, deve essere ratificato da almeno 55 Paesi che rappresentino il 55 per cento delle emissioni mondiali di gas serra. Forti sono le pressioni dell'Ue, da sempre apertamente schierata pro Kyoto, perché la Russia vi aderisca, consentendone il varo definitivo. Putin, però, continua a rimandare la firma per paura di danneggiare la produzione energetica del Paese.

Tra i grandi inquinatori spiccano gli Stati Uniti, che da soli rappresentano il 36,1 per cento delle emissioni di anidride carbonica del pianeta, quindi l'Unione europea (con il 24,2 per cento delle emissioni), la Russia (con il 17,4 per cento) e il Giappone con l'8,5 per cento. Il trattato sarà vincolante solo per i Paesi che lo ratificheranno. Ma cosa prevede il Protocollo? Kyoto indica gli obiettivi internazionali per la riduzione di sei gas cosiddetti ad effetto serra (anidride carbonica, metano, protossido di azoto, perfluorocarburo, idrofluorocarburo e esafloruro di zolfo), ritenuti responsabili del riscaldamento globale del pianeta che potrebbe portare a gravissime modifiche del clima.

L'obiettivo fissato era quello di una riduzione media del 5,2 per cento dei livelli di emissione del 1990, nel periodo 2008-2012. Per alcuni Paesi era prevista una riduzione maggiore (8 per cento l'Unione europea, 7 per cento gli Stati Uniti, 6 per cento il Giappone, 6,5 per cento per l'Italia), per altri, considerati in via di sviluppo, erano stati fissati obiettivi minori. Per Russia e Ucraina, ad esempio, l'obiettivo da raggiungere è la stabilizzazione sui livelli del 1990.

La situazione all'interno dell'Ue non è uniforme. La Francia ad esempio non deve ridurre nulla grazie alla grande quantità di energia nucleare che produce, la Germania doveva abbattere le emissioni del 21 per cento ed è già a meno 18,3, così come il Regno unito che doveva abbattere la sua quota del 12,5 per cento e ha praticamente già centrato l'obiettivo. Lo stesso hanno fatto la Svezia, la Grecia e il Lussemburgo. Stanno peggio dell'Italia, l'Austria, l'Irlanda, la Spagna e la Danimarca.Gli Usa sforano l'obiettivo del 13 per cento, il Canada del 28,7 per cento, l'Australia del 13, il Giappone del 15,5.

Secondo un recente studio dell'Ipcc, il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici che riunisce i maggiori esperti mondiale, perdurando la situazione attuale un raddoppio delle concentrazioni di anidride carbonica porterà a un aumento della temperature globale quantificabile tra 1,4 e 5,8 gradi centigradi entro il prossimo secolo. Gli scienziati del comitato ritengono che ci siano prove "chiare" dell'influenza umana sul clima ed è probabile che i gas "a effetto serra" immessi dall'uomo nell'atmosfera "abbiano già sostanzialmente contribuito al riscaldamento osservato negli ultimi 50 anni". Dal 1860 - all'inizio della rivoluzione industriale - a oggi, la temperatura della Terra si è alzata tra 0,3 e 0,6 gradi centigradi. Da quando sono iniziate le misurazioni, gli anni Novanta sono stati nel complesso il decennio più caldo, e il 1998 è stato l'anno più caldo mai registrato in assoluto.

Le conseguenze, secondo lo studio dell'Ipcc, si farebbero sentire. Molti modelli climatici indicano che già ora il riscaldamento del pianeta provoca in diverse aree un aumento nella frequenza e nella durata di eventi estremi come piogge, alluvioni e siccità. Nell'ultimo secolo il livello del mare è cresciuto globalmente di 10-25 centimetri, probabilmente proprio a causa dell'aumento della temperatura terrestre che ha provocato lo scioglimento dei ghiacci polari. Un aggravamento del fenomeno porterebbe un ulteriore scioglimento dei ghiacci (con conseguente aumento del livello dei mari), un aumento delle precipitazioni nell'emisfero Nord e una crescita della siccità in quello Sud, e in generale a un'estremizzazione degli eventi meteorologici. Per invertire la rotta, sarebbe necessario un drastico taglio di almeno il 60 per cento delle emissioni di gas inquinanti. L'obiettivo fissato da Kyoto è oltre dieci volte inferiore.

Semplice allarmismo, secondo i detrattori del Protocollo, in crescita anche nel nostro Paese (negli Usa sono un gruppo di pressione molto potente). Gli anti Kyoto sostengono che il legame tra aumento dei gas ed effetto serra non è dimostrato e sottolineano il fatto che il processo di riscaldamento non è stato uguale ovunque e che ci sono zone in cui quest'aumento non c'è stato o non è stato significativo. Concetti ribaditi nel corso di un convegno promosso dall'Istituto Bruno Leoni e dalla rivista 21mo Secolo, Scienza e Tecnologia. Per Christopher C. Horner dell'European Enterprise Institute "una ben collaudata lobby del clima in favore di Kyoto aggredisce ogni scienziato o politico scettico. Questo gruppo di pressione mira ad aumentare il costo, e spostare il controllo sull'uso dell'energia". Interrogato sul perché l'Ue sia tanto favorevole a Kyoto, Horner risponde con un gesto: "La produzione Usa è qui, in alto, quella europea più in basso. Non potendo competere sul terreno economico, attraverso il Protocollo si vuole portare la produzione americana a livello di quella europea".

Più esplicito Oscar Giannino, giornalista economico del "Foglio", da sempre oppositore di Kyoto. "Nella Ue chi decide veramente sono i funzionari che stanno attorno al commissario all'Ambiente Margot Wallstrom, tutta gente che proviene da associazioni ambientaliste o dalla Francia". La Francia? "Sì è la maggiore sostenitrice del Protocollo. Il motivo è semplice. Avendo in passato effettuato la scelta del nucleare, si ritrova già in linea con i parametri di Kyoto e quindi può aumentare la propria competitività rispetto a paesi, come l'Italia, che hanno abbandonato l'opzione nucleare e oggi si trovano in difficoltà a rispettare i parametri. Così paradossalmente, i meno ambientalisti sono i più virtuosi e chi ha fatto una scelta apparentemente ambientalista, con il pessimo referendum anti nucleare dell'87, oggi deve tagliare quote importanti di produzione. Gran bel risultato".

E sui costi economici che comporterà un limite all'uso dell'energia ottenuta da carbone, petrolio e metano, è intervenuta Margo M.Thorning, direttore dell'International Council for Capital Formation. Secondo la Thorning, gli effetti di Kyoto sull'Unione europea vanno dall'1,8 al 5 per cento del Pil in meno nel 2010, mentre in Italia il Pil reale cadrebbe dello 0,5 per cento nel periodo 2008-2012 e sarebbe dell'1,9 e del 2,9 per cento in meno, rispettivamente nel 2020 e nel 2025. "Con un danno doppio", spiega la Thorning: "Se la crescita del Pil rallenta l'industria ha meno risorse da investire in nuove tecnologie che riducano le emissioni di Co2".

Una visione diametralmente opposta arriva da uno studio dell'Eea, l'Agenzia europea per l'ambiente di Copenaghen. Secondo gli esperti, anche in caso di mancata ratifica da parte della Russia, "il raggiungimento degli obiettivi di Kyoto nella sola Europa occidentale comporterebbe, oltre ai benefici ambientali, anche un calo delle spese legate al controllo e alla riduzione dell'inquinamento pari a circa 6,6 miliardi di euro l'anno". In pratica, oltre ai benefici derivanti dalla maggiore protezione dell'ambiente, il rispetto degli impegni presi con la ratifica del Protocollo genererebbe risparmi diretti, che andrebbero ad aggiungersi ai vantaggi sotto il profilo sanitario non quantificati nella ricerca. Chissà se tutto ciò è scritto in francese.

Live

Torna al Blog

 

Home Page <<Back